Dopo le violente dichiarazioni di Tortosa un altro poliziotto, Gianpaolo Trevisi, parla e manifesta la sua presenza sul social, ma questa volta per chiedere scusa
una scena del film Diaz – Don’t Clean Up This Blood
Parlare dei social network in solo quanto”strumenti” è ormai riduttivo. Come si fa a chiamare strumento uno spazio dove nelle possibilità possono incontrarsi più di un miliardo di persone? Questo è Facebook, e ormai è semplicemente una parte della realtà. Scegliere di esserci equivale a scegliere o meno di passare un tempo in un posto rispetto a un altro, con la differenza che qui le nostre informazioni sono reperibili in pochi click, ma siamo noi a scegliere cosa e con chi condividere. Un immenso spazio può essere palestra di intolleranza, come spesso accade, terreno di promozione, scambio di informazioni (molte volte false purtroppo) e specchio delle proprie pulsioni egotiche.
La storia recente del social ideato da Zuckerberg è costellata, anche in Italia, di dichiarazioni choc capaci di infangare, far provare dolore e creare dibattito. Che qualcosa sarebbe accaduto dopo la sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani sul massacro alla scuola Diaz di Genova era naturale. In questi giorni soprattutto l’uscita di Fabio Tortosa (uno degli agenti che partecipò all’irruzione) ha destato stupore, e come si dice in questi casi, ha fatto notizia. Uno che con tre righe ha riaperto ferite, con o senza la coscienza che quelle parole avrebbero fatto il giro del Paese indignando e prendendo nuovamente a calci coloro che le botte le avevano già prese. E dopo la pubblicazione del post datata 9 aprile che recitava «Io sono uno degli 80 del VII Nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte» l’argomento diventa in poco tempo caldissimo per i media e rischia di oscurare una notizia di segno totalmente opposto. Perché c’è anche chi del sangue sui pavimenti della Diaz non è orgoglioso, nella consapevolezza che senza una presa di posizione da parte dei poliziotti che erano a Genova la divisa rischia di fare la fine delle mani di Macbeth. Eccola allora l’altra faccia della Polizia di Stato opposta a quella fascista che non va oltre ordine e disciplina, quella che non riconosce la differenza tra un black bloc e un manifestante pacifico.
Non va preso sotto gamba il post di Tortosa, del quale d’altronde il profilo facebook ora non è più rintracciabile (è come se si fosse messo nel centro di Piazza Alimonda con un cartello). Poi sono arrivate le smentite, alle radio, ai giornali, la paura che qualche querela o azione disciplinare potesse muoversi in fretta. Tortosa ritratta e facendo così vuole farci credere che non ha coscienza del fatto che uno spazio come facebook è una propaggine della realtà, e nella realtà le parole feriscono.
Gianpaolo Trevisi ha postato un giorno dopo, il 10 aprile, creando un piccolo maremoto e ricevendo più di 1200 apprezzamenti (i famosi likes) e 861 condivisioni (al 15 aprile, giorno di redazione di questo articolo). In buona sostanza avrà ricevuto decine di migliaia di visualizzazioni, come se avesse riempito una piazza.
L’ex celerino, ora dirige la scuola di polizia di Peschiera, ha pubblicato una foto del 2011 nella quale lo si vede discutere con Vittorio Agnoletto davanti alla Diaz. Ma è la prosa a convincere le migliaia di persone e a rendere virale il messaggio. Siamo di fronte a un poliziotto (non a caso è anche scrittore) che usa parole e immagini simbolicamente fortissime. La notte della Diaz è la «nerissima notte», poi il salto al presente, l’azione con cui l’agente ha voluto dare un segno pratico: «ho fatto vedere ai 160 allievi, molti dei quali nel 2001 avevano 9/10 anni, il film Diaz». Solo questa affermazione basterebbe a far capire da che parte sta Trevisi e quale sia il suo intento, ma il poliziotto-intellettuale continua: «so bene, avendolo visto più volte, che subito dopo l’ultima scena, i titoli di coda ti stringono il collo, ti lasciano senza fiato e senza parole; rimani in silenzio e immobile sulla poltrona, ben sapendo che, nella maggior parte dei film o delle serie televisive, grazie alle quali molti amano la Polizia, è quasi tutto inventato e nell’unico, forse, unico film che ci distrugge è tutto drammaticamente vero, in quanto basato su fatti processualmente verificati.»
Il funzionario, prima di arrivare addirittura a fare le sue scuse (nonostante lui nella “macelleria messicana” non ci ha messo piede), mette l’accento su un tema centrale, quello della memoria: «soprattutto tra di noi, se ne deve parlare e si deve litigare e discutere e domandare e rispondere, se si può. Proprio perché amo la mia Polizia sino al midollo, non voglio dimenticare quella notte e la voglio ricordare a chi la sta scordando e descriverla a chi non la conosce.»
Naturalmente sotto al post di Trevisi si accende un dibattito, molti sono gli attestati di stima, anche di altri poliziotti, naturalmente c’è chi nettamente non è d’accordo e cerca di spostare ancora una volta l’attenzione agli atti vandalici del G8 quasi a giustificare la violenza nella Diaz. Ma ormai è troppo tardi: una voce coraggiosa si è alzata, alimentiamola, diamole spazio, facciamola crescere, questo è il senso della costruzione di una memoria collettiva.
Andrea Pocosgnich
pubblicato il 17 aprile 2015 su Cronache del Garantista